Le città in cui viviamo ed i territori vicini da alcuni anni subiscono
massicce opere di costruzione e cementificazione: moltissime aree
urbane che lo sguardo era abituato a vedere aperte, sono ora riempite
da nuovi edifici in rapida crescita che ridisegnano il panorama visivo
e contribuiscono all' urbanizzazione forzata, continua ed
apparentemente inevitabile di persone e luoghi. Un processo globale,
rappresentato in forme mastodontiche dalle nuove megalopoli mondiali,
con decine di milioni di abitanti, molti dei quali vivono in condizioni
estreme negli slum che lambiscono le zone residenziali e del business,
firmate da architetti di fama.
Le città europee e quelle italiane non arrivano a questi limiti, ma registrano comunque un sensibile aumento dei volumi costruiti, dovuto più ad interessi
economici e una nuova e vasta speculazione edilizia – che ad un reale
bisogno di nuovi edifici.
Si frantumano così quelli che fino a pochi decenni fa erano i confini
tra città e paesi: margini caratterizzati da campagne ancora abitate e
produttive nei settori agricoli, organizzati, è vero, su forme di
agricoltura intensiva ed industrializzata, ma in cui sopravvivevano
orti, piccole stalle, pollai e stagni.
La pianura Padana è sempre più un unico immenso agglomerato di
costruzioni, servite da una fitta trama di vie di scorrimento con
flussi continui di traffico, a lungo e corto raggio: tutto ciò ne fa
uno dei territori a più alto tasso di inquinamento della terra.
In questi territori il verde è gestito da attività umane in forme diverse.
I campi delle monoculture, piatti e sterminati, presto saranno
convertiti nelle nuove produzioni destinate alla produzione di
agro-carburanti, furbescamente chiamati bio, alternativi ai derivati
petroliferi.
I giardini: quelli privati che circondano le ville fuori città, curati
come figli viziati, recintati e protetti da vari sistemi di
sorveglianza; e quelli di città, polmoni asfittici di organismi in cui
la fanno da padroni polveri sottili e asfalto.
Le aree protette, dove per far sopravvivere gli ambienti naturali è
necessario l'isolamento, consentendo l'ingresso umano solo attraverso
lo sguardo.
Appena più lontane, ma comunque facilmente raggiungibili, piccole aree
di produzione agricola di qualità, dove spesso si pratica agricoltura
biologica. Solo se non hanno ancora realizzato un centro-benessere o un
campo da golf, massime aspirazioni di "luoghi naturali" della
modernità.
Ed ancora gli orti urbani, assegnati dalle amministrazioni, con
parcelle così simili ai condomini degli assegnatari, oppure piccoli
orti privati di chi ha la fortuna di avere qualche metro quadro di
terra dietro casa.
Tutte forme di organizzazione razionale del territorio e della natura.
Che producono residui. Residui di verde che nessuno cura e che seguono
un proprio sviluppo; spesso poco appariscenti come tutti i residui,
sono invece vere e proprie riserve biologiche. Semi trasportati dalle
correnti d'aria o dalle suole delle nostre scarpe germinano nei posti
più impensati, tracciando linee verdi di continuità sottili ma sempre
rinnovate. Chiamate malerbe e fiori selvaggi, sono considerate da tutti
infestanti ed eliminate nei più svariati modi.
Eppure con vitalità e intraprendenza queste piante vagabonde tornano ad
invadere i residui delle nostre attività; la vita vegetale riesce a
farsi spazio nelle crepe urbane, colonizzando macerie, edifici e luoghi
abbandonati, alludendo ed indicando una diversa relazione tra umano e
natura.
Una relazione possibile tra fare e non-fare che stravolge il senso comune della gestione razionale dei territori.
Relazione di affinità, come quella tra potenza del verde spontaneo e
pratiche colturali – cioè culturali – non ufficiali, abusive, che
sfruttano i residui per creare orti e giardini: spazi dove la terra non
viene ricoperta da strati di pavimentazione, ma genera fiori, frutti e
piante.
Spazi pubblici da realizzare piantando alberi, luoghi di incontro dove
non si compra e non si consuma ma si coltiva. O anche luoghi da
osservare, semplicemente lasciati all'opera delle erbe spontanee e
vagabonde. Nel tempo dell'immaterialità, pratiche materiali di colture
e culture marginali. I margini non sono linee ma spazi dove si
incontrano e si mescolano le diversità: così la loro ricchezza è più
grande di quella degli ambienti che separano.
Anche
Xm24 è un po' residuo: luogo abbandonato dalle attività produttive, nel
corso di questi anni è stato attraversato e vivificato da innumerevoli
attività sociali, politiche e culturali, accomunate nella critica
pratica dell'esistente; nel realizzare questo si è fatto spazio
pubblico, luogo delle relazioni. Che non sempre sono facili e
gratificanti. Ma che hanno permesso di costruire legami con il
quartiere, la storica Bolognina, di cui è parte riconosciuta da tutti,
con ruoli critici e propositivi.
Appena al di là dei propri muri un vasto residuo – che dovrebbe
diventare nei prossimi anni la più vasta area di verde pubblico
cittadina è invaso da piante ed erbe vagabonde e pioniere, molte
delle quali hanno già assunto la forma di veri e propri alberi
spontanei.
Xm24 è quindi anche un margine, un limite della città con un residuo in
attesa dei tempi lunghi delle procedure burocratiche e degli scambi
commerciali.
Contemporaneamente in xm24 si sono sviluppate altre nuove relazioni tra
città e campagna e tra produzione e consumo: nell'appuntamento
settimanale con i produttori dell'agricoltura contadina. Un'esperienza fondata su filiera corta, produzioni biologiche,
autocertificazione che non è solo un servizio per i consumatori.
Riporta infatti con forza la terra, che è anche Terra, al centro della
vita di tutti noi che la calpestiamo e che la abitiamo. Fa capire che
l'ambiente non è il contorno in cui lavoriamo, viaggiamo e consumiamo,
ma il terreno di nome e di fatto di nuove pratiche politiche.
Colture e culture tornano a fondersi nella loro radice comune.
Con
CriticalGarden/CrepeUrbane xm24 esplora la propria forma di margine, "un territorio di ricerca sulle ricchezze che nascono dall' incontro di
ambienti diversi".
Vogliamo approfondire i legami con le culture della terra, fare modo
che il verde pubblico diventi idea e parte integrante e costitutiva
dello spazio pubblico.
Vogliamo lasciare invadere gli spazi urbani da piante, arbusti, fiori spontanei
Vogliamo farci invadere da esperienze pratiche di giardinaggio e orticoltura, abusive e/o indipendenti.
Da parole ed immagini su agricoltura contadina ed urbana.
Da laboratori del fare terra in città e nelle case.
Da itinerari alla scoperta del verde spontaneo.
Da proposte e progetti di interventi verdi in altri luoghi e spazi pubblici.