da Carta, Anno X n.39
Un fenomeno che è letteralmente esploso in città grandi e piccole: gli orti urbani. Dove e come si fanno, come sono ostacolati o favoriti dalle amministrazioni, perché ridisegnano il paesaggio metropolitano di cemento. E cosa ci si coltiva
di Gianluca Carmosino
I DIRIGENTI DELLA BURPEE SEEDS, la più grande azienda statunitense di sementi, sono tra i pochi a osservare con tranquillità il crack della finanza globale. L’azienda ha venduto il doppio di semi rispetto ai primi mesi del 2007, proseguendo una crescita cominciata da un po’ di tempo. Ma perché sempre più persone si rivolgono ad aziende o reti di contadini che diffondono semi? A fare la differenza, alla Burpee Seeds ne sono convinti, è stata l’esplosione del fenomeno degli orti urbani, che, proprio come la crisi di Wall Street, si espande da New York e San Francisco a Londra, Parigi, Roma, Milano, e in città più piccole, in Italia, come Palermo, Genova, Firenze e Salerno.
Prezzi che salgono, caro petrolio, desiderio di verde e di cibo buono, volontà di dimostrare che è possibile recuperare spazi per stare insieme e per fare qualcosa contro i cambiamenti climatici [ad esempio azzerare il numero di chilometri che il cibo percorre prima di finire nel piatto] : ecco perché anche nei centri urbani sono in molti a prodursi da sé gli ortaggi.
La diffusione degli orti urbani, in epoca moderna, ha avuto inizio negli Stati uniti, a fine Ottocento, tra i meno ricchi: all’inizio del Novecento ogni famiglia, in media, coltivava un terzo del proprio cibo, percentuale che oggi si è ridotta a dell’ 1,5 per cento. In Italia, negli anni cinquanta, ancora la metà della popolazione produceva la maggior parte del cibo che consumava. L’aumento delle terre coltivate, abusive e non, così come il recupero di giardini quali spazi di incontro ed evasione – la distinzione tra orti e giardini urbani, spiega Michela Pasquali, architetto del paesaggio e botanica, è ambigua e fluttuante – segue l’andamento ciclico dell’economia e quello delle migrazioni dalle campagne ai centri urbani. E nel 2007, per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione urbana ha superato quella delle campagne.
Gli orti raccontano le comunità: negli Usa sono i «latini» a coltivare peperoncini e zucchine, gli asiatici preferiscono spinaci e verze. Nelle periferie di Roma, negli insediamenti del dopoguerra, si trovavano, e si trovano ancora, carciofi sardi, cavoli velletrani, peperoncini calabresi: lo dice uno dei pochi censimenti di orti urbani, curato dal Dipartimento delle politiche ambientali e agricole del Comune di Roma nel 2006. La capitale, per altro, è da poche settimane la prima città italiana a sperimentare il «Pick your ownn [prendi da solo]: alcune cooperative agricole, le cui aziende hanno sede a ridosso della città [come Agricoltura nuova], invitano i cittadini a raccogliere direttamente negli orti i loro prodotti bio a prezzi ridotti di un terzo.
Secondo l’antropologo-architetto Franco La Cecla, gli orti urbani hanno senso in quanto «lavorio ai fianchi» della città normalizzata: «Ivan Illich avrebbe detto che si tratta di diritto alla disoccupazione creativa – scrive nella prefazione de «I giardini di Manhattan» di Michela Pasquali – di spazi vernacolali che ripropongono nella vita della città un tipo di economia che è molto più vicina al valore d’uso che al valore di scambio».
Dati su questa economia assai poco soppesata dal Pil sono pochissimi, il censimento romano ha individuato 2.500 terreni, appezzamenti occupati compresi. Una delle aree con più orti è il Fosso di Bravetta: sessanta orti abusivi che il comune sta cercando di regolarizzare, sulla scia di quanto accade a Milano e Bologna, e in centri minori come Livorno,
Pesaro, Magenta, Segrate, Bresso [Mi], Orbassano [To], Alba [Cn], Voghera [Pv] e Savignano [Bo].
Una delle esperienze più interessanti sono i 180 lotti di via Toscanini, coltivati da altrettanti nuclei familiari a Reggio Emilia. «Per molti anni, buona parte di quella terra era rimasta abbandonata – racconta Matteo Incerti – Poi alcuni anziani hanno cominciato a coltivare e ora si avvicinano anche i giovani». Oggi anche l’amministrazione sostiene
gli orti. «Qui collaboriamo e scherziamo ogni giorno – dice Francesco, uno dei «contadini urbani» di Reggio – Coltivare l’orto è un modo per risparmiare e per stare insieme». «Chi ha questa passione – aggiun gè Remo – riesce a ottenere prodotti di prima qualità». Anche Annamaria è una delle pensionate di vìa Toscanini: per lei curare un orto significa «cibo buono e genuino».
Marina, che ha circa trent’anni e coltiva frutta e verdura in un angolo del suo giardino nel centro di Reggio, aggiunge: «L’autoproduzione consente di risparmiare, di fare del compost
[fertilizzante biologico, ndr.] domestico ma anche di scoprire una vera filosofia di vita».
«Crepe urbane» si chiama un foglio diffuso a Bologna da un collettivo del centro sociale «xm24», che si è formato un anno fa attorno al progetto Critical Garden per raccontare di orticultori in aree residuali e di «guerriglieri verdi» che riconquistano spazi pubblici.
Nel 2007 a Torino un bando pubblico ha assegnato 102 orti del Parco Sangone, con un’ampiezza media di cento metri quadrati ciascuno. A Milano ci sono le esperienze dell’associazione di produzione creativa e di scambio culturale AmazeLab, e quella del Leoncavallo, La Terra trema, rete di contadini urbani e vignaioli. «Green Island è il progetto che cerca di creare verde nel quartiere Isola – dice Claudia Zanfi di AmazeLab – Abbiamo dimostrato che è possibile avviare un laboratorio di partecipazione con i cittadini per organizzare il verde e gli orti urbani anche in un quartiere popolare e centrale». A Milano i cittadini che si occupano di orti urbani sono in buona parte coinvolti anche nei movimenti Criticai garden e Criticai mass [le gite protesta in bicicletta nelle strade urbane], e in quello più «formale» che promuove orti scolastici, come conferma Teodoro Margarita promotore di Ortidipace.org.
Ma o stesso accade negli Usa, con associazion come Green guerrillas di New York, Alice Griffith community garden di San Francisco, e poi Evergreen [Canada], Federation of city farms [Gran Bretagna] e Atelier La Balto, promossa da francesi ma Berlino. Negli Stati uniti sono riusciti a far pubblicare il «Manifesto del contadino urbano» sul New York Times Magazine e a organizzare nella citi spazi dove, tra mele, aiuole, pomodori, alberi broccoli, comunità di migranti e bambini organizzano feste all’aperto, a volte battesimi e matrimoni, di sicuro
per coltivare ortaggi e per giocare. Insomma, i cittadini romani di Bravetta e di via Toscanini a Reggio Emilia e i bolognesi di Crepe Urbane sono tra i tanti che hanno ripreso a zappare i gli orti delle città in tutto il mondo.